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Dolce Stil Web sul Quotidiano Nazionale

Oggi si parla di Dolce Stil Web sul Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno). La recensione di Stefano Sieni è a pagina 31, nell’inserto “Il caffè della Domenica Estate”. Ecco cosa scrive Sieni del mio libricino.

Dolce Stil Web e la nuova lingua degli internauti.

A proposito, che fine ha fatto l’esperanto? Ci avete fatto caso? Ormai, da anni e senza tanti proclami, è nata sì una nuova lingua, ma non è l’esperanto. Una nuova lingua che unisce le persone dei paesi più lontani e delle culture più diverse, davanti a una tastiera e a un video, e non soltanto.

Uno slang strano, svelto e rivoluzionario, arrivato in prrincipio da oltreoceano ma in perenne evoluzione (e contaminazione). Un misto di inglese, spagnolo, informatica, goliardia e icone animate. Un modo diverso e veloce di comunicare, che è entrato nella vita quotidiana e nel vocabolario di noi tutti. O quasi.

Se, infatti, ai tempi eroici del maestro Manzi e del suo Non è mai troppo tardi gli analfabeti erano gli italiani – tanti – che non sapevano né leggere né scrivere, ora i nuovi analfabeti rischiano di diventare quelli che non conoscono il linguaggio del web, e più in generale dell’universo digitale. Quelli, cioè, che restano tagliati fuori da un mondo in continua espansione. Un mondo non tanto di parole quanto di fatti. Senza la password non apri più niente. Senza il pin non sei nessuno.

Benvenuto, allora, il prezioso libretto di Pino Bruno intitolato Dolce Stil Web (Sperling&Kupfer, 16 euro, prefazione di Gianrico Carofiglio), che ci spiega – parola per parola, è proprio il caso di dirlo – i “fondamentali” della rete e dei suoi termini, con relativa etimologia. Una miniera di notizie.

Si scopre così che i delinquenti informatici non sono gli hacker ma i cracker o black hat e che, a dispetto della cattiva stampa, i bistrattati hacker sono i “pirati buoni”, che agiscono per fini etici.

E si scopre anche, tra mille altre curiosità, da dove viene il termine bug, cioè baco, reso famoso dalla psicosi del Millennium Bug, appunto. Fu coniato nel 1945 da Grace Murray Hopper, responsabile del calcolatore Mark Uno di Harvard, antenato dei moderni personal computer. Un giorno, la macchina andò in tilt e fu la stessa Hopper a trovare il perché, smontandola. Semplice: una falena era finita nei contatti di un relè. E da allora la parola bug fu usata per indicare i piccoli insetti virtuali che fanno impazzire il Pc. Maledetti bachi.

Stefano Sieni

Pino Bruno

Scrivo per passione e per dovere, sono direttore di Tom's Hardware Italy, ho fatto il giornalista all'Ansa e alla Rai e scrivo di digital life per Mondadori Informatica e Sperling&Kupfer

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