La lampada del Thomas Edison dei poveri
28 Agosto 2013 Pubblicato da Pino Bruno
- 28 Agosto 2013
- AMBIENTE, BUONI ESEMPI
- ecologia, risparmio energetico
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Illuminare le case grazie alla semplice rifrazione della luce solare. L’idea di Alfredo Moser accende il (terzo) mondo. Grazie a una bottiglia di plastica, la sua idea ha varcato i confini della piccola cittadina di Uberaba, nel profondo Brasile dove vive Alfredo, per strappare al buio un milione di abitazioni. La sua storia è stata raccontata anche dalla BBC. Il meccanico Alfredo Moser, scrive Gibby Zobel sul sito britannico, potrebbe essere considerato un Thomas Edison dei nostri giorni. La tecnologia qui c’entra molto poco: più importante è stata l’intuizione che l’ha portato a creare la Solar Bottle Bulb.
Come funziona la luce imbottigliata? In modo semplicissimo. Si serve della rifrazione della luce solare sul contenitore, in questo caso una bottiglia in Polietilene tereftalato. Una bottiglia in PET trasparente da due litri di capienza riempita d’acqua, alla quale vanno aggiunte due capsule di candeggina per evitarne l’intorbidamento. La bottiglia va chiusa con il suo tappo. “Funziona meglio se viene ricoperto con nastro isolante nero”, spiega Moser, ma non è indispensabile.
La ‘lampada di Moser’ è pronta per essere fissata al tetto attraverso un foro fatto con un trapano, sigillato con della resina per evitare perdite. “Un ingegnere è venuto e ha misurato la luce. Dipende da quanto è forte il sole, ma è tra i 40 ei 60 watt“, ha spiegato Moser.
Seguendo questo metodo, la Fondazione MyShelter ha cominciato a produrre le lampade e ora insegna nei Paesi poveri a fare e installare la “luce in bottiglia”. Nelle Filippine, dove un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà (meno di un dollaro al giorno, secondo l’Onu) e l’energia elettrica è molto costosa, le “lampade di Moser” hanno avuto un tale successo che ora illuminano 140.000 case. La bottiglia luminosa oggi è presente in altri 15 paesi, tra cui India, Bangladesh, Tanzania, Argentina e Isole Fiji.
Povero ma felice
Alfredo, “inventore per caso” ha cominciato mettendo le bottiglie di luce a casa sua, dai vicini e al supermercato del quartiere. L’idea è nata durante uno dei frequenti blackout di energia elettrica del paese. “Gli unici posti che in cui c’era energia erano le fabbriche, non le case”, ricorda Moser. Lui lo ha fatto per pochi soldi, e ancora oggi vive nella stessa modesta abitazione e guida un’auto del 1974. Non è diventato ricco, non ha brevettato la sua idea. Tuttavia, Moser sembra essere orgoglioso lo stesso. “Una persona che conosco ha installato lampade a casa ed entro un mese risparmiato abbastanza soldi per comprare cose essenziali per il suo bambino appena nato. Potete immaginare?”
Risparmio energetico e tutela dell’ambiente
Le lampade ad acqua con bottiglie PET non richiedono energia per essere prodotte, perché il materiale può essere raccolto e riutilizzato dalla comunità, e non rilasciano CO2. Per avere un termine di paragone, il “carbon footprint“, cioè la quantità di anidride carbonica scaricata in atmosfera, è 0,42 kg di CO2 per tenere accesa una lampadina. Una lampada di 50 watt, collegata per 14 ore al giorno per un anno, ha un carbon footprint di quasi 200 kg di CO2 (Fonte: Onu).
Certo, le bottiglie di Moser hanno molti limiti: funzionano solo quando fuori c’è luce naturale e non hanno la capacità di immagazzinare l’energia. Già, ma non servono per illuminare attici sfarzosi e abitazioni moderne. Chiunque abbia visitato una favela o una baraccopoli nelle periferie del mondo sa di cosa parliamo. Opportunamente installate, però, migliaia di Solar Bottle Bulb potrebbero far luce anche nel cosiddetto “Primo mondo”. E ce ne sono tanti anche da noi luoghi di vita e di lavoro ricoperti con tetti di lamiera.
(Grazie a Celia Guimaraes, giornalista di RaiNews24, per la collaborazione).